A seguito dell'incontro a Le Murate di Firenze, Riccardo Donati, che gli autori sentitamente ringraziano, ci propone altri spunti di riflessione (le immagini sono state realizzate invece durante l'incontro di Castelfranco Emilia, condotto da Luca Cesari e con un bell'intervento dell'assessore alla cultura, Carlo Alberto Bertelli):
Oltre la divulgazione di quello che è. L'elmo e la
rivolta
In un articolo
del 1969 – lo stesso anno in cui Mondadori accettava la scommessa non facile, e
forse oggi impensabile, di dare alle stampe il Poema a fumetti firmato
Dino Buzzati – Cesare Zavattini scriveva che
[...] i fumetti non vanno bloccati in una definizione
e in un costume che diventano repressivi ma colti, fruiti, in quello che di
moderno propongono, intendendo per moderni la costante del mutamento e il
mutamento quale coincidenza con le più massicce richieste sociali, che sono
sempre all'avanguardia. Sarebbe inutile e infido limitare la dinamica del
fumetto alla divulgazione di quello che c'è. Chi si assumesse il compito
di affrontare coi fumetti Dante o Hegel o lo strutturalismo o la rivoluzione
francese dovrebbe preferirli in quanto gli sono insufficienti i linguaggi
tradizionali. Dovrebbe cioè essere una scelta, un'invenzione e una traduzione
in un codice diverso della medesima sostanza. Operazioni impacifiche,
caratterizzate da una carica riflessiva, analitica per la quale all'esposizione
cosiddetta orizzontale, sia della Divina Commedia o delle Lettere dal
carcere viene di continuo sostituita l'interruzione, il commento, la
verifica tra ogni affermazione assoluta e la vita corrente, il confronto
inesorabile tra passato e presente, tra individuo e comunità.
Se la
ricostruzione di un dato frangente storico attraverso la forma del graphic
novel è già stata tentata da tempo e con notevole successo (basti pensare
al Maus di Spiegelman, e all'interesse che l'opera ha suscitato in uno
storico di primo piano come Hayden White), la novità rappresentata da L'elmo
e la rivolta consiste nel presentarsi come primo graphic essay della
storia del fumetto (perlomeno di quello italico: altra cosa sono, in effetti,
opere come la pur meritoria Storia
d'Italia a fumetti di Enzo Biagi, pregevole e intelligente testo di
divulgazione privo tuttavia di spessore analitico). Assumendo il non
facile compito di dar forma al frammentato pulviscolo di suggestioni, credenze
e miti sorti intorno alle figure di Scipione e Spartaco nel corso dell'Otto e
Novecento, Luciano Curreri e Giuseppe Palumbo optano dunque per il linguaggio
dei fumetti, spinti a questo passo da ragioni non dissimili rispetto a quelle
enunciate da Zavattini nell'articolo sopra citato (dove appunto viene
prefigurato, più che il graphic novel, l'avvento di un graphic essay
del tipo di cui stiamo discutendo). L'esigenza che li anima è infatti quella di
superare i limiti dei linguaggi tradizionali, i quali, marcati stretti da
secolari convenzioni e costrizioni, anche formali, difficilmente permettono di
dribblare – le
metafore calcistiche sono giustificate dal testo – quella che Zavattini chiama l'"esposizione orizzontale"
della materia trattata. La forza di questo connubio risiede allora nella scelta
di integrare due tipologie di scrittura solitamente distanti, per non dire
antipodiche (quella saggistica; quella grafica), al fine di innestare la
"medesima sostanza" (l'analisi storiografica, sociologica,
mitografica, culturologica ecc.) sul tronco di una nuova forma espressiva,
operando un felice connubio tra sterminata erudizione (sia pure un'erudizione
divertita, che non sa e non vuole prendersi troppo sul serio) e attenzione ai
dati più immediati dell'immaginario contemporaneo. Che studiare la storia
significhi giungere a un «confronto
inesorabile tra passato e presente, tra individuo e comunità», lo insegna in modo magistrale, per non
citare che un esempio celebre, Luciano Canfora quando nei suoi libri mette a
confronto la democrazia ateniese con quella statunitense. Ma questo
confronto sarà tanto più produttivo ed efficace (ossia in grado di far spazio,
sulla pagina, a quel bisogno di “sovrabbondanza umana” che è il ribaltamento
esatto del concetto di surplus capitalistico, come insegna il Bloch di Il
principio speranza) quanto più saprà intercettare le possibilità
espressive offerte da codici largamente condivisi ("popolari", si
sarebbe detto un tempo). Per riprendere, adeguandola all'occasione, una formula
proposta da uno dei pochi (ahinoi) padri nobili del nostro fumetto, Oreste Del
Buono, L'elmo e la rivolta rappresenta un riuscito esperimento di «figurazione saggistica» proprio nella misura in cui il continuo
scambio e gioco di rilanci tra testo e immagine, fino al dosato armonizzarsi
delle due dimensioni (a formare un unicum scandito, ritmato,
"sequenziale", per dirla con Will Eisner), garantisce all'opera una
duplice profondità, euristica ed artistica. Una duplice profondità cui,
innegabilmente, la forma-saggio e la forma-fumetto singolarmente considerate
non sarebbero in grado di attingere. Ciò che Zavattini intuisce, in definitiva,
non è poi così distante da quanto già Benjamin aveva ampiamente compreso,
ovvero che nella modernità la forma-saggio non può più andar disgiunta dalle
altre forme produttrici di senso e di immaginario della contemporaneità.
L'invenzione del graphic essay rappresenta in questo senso una non
trascurabile opportunità, per il pensiero e la conoscenza, di restare vitali, andando
oltre i battuti sentieri della mera catena verbo-concettuale
("oltre", si badi, non "contro", perché superare un codice
significa essersene già nutriti, averlo già assimilato: proprio come fanno
Ninetto e Totò in Uccellacci e uccellini... e qui Spartaco e Scipione,
col Corvo della conoscenza). L'elmo e la rivolta, "operazione
impacifica" (di guerra e di morti si parla, infatti), forse anche
imperfetta (nella misura in cui rappresenta il primo prodotto uscito da
un'officina che promette ulteriori sviluppi), oltre al merito dell'originalità,
ci sembra dunque avere anche il pregio di soddisfare una richiesta di sapere (e
una sete di paradigmi identificativo-identitari) che forse non sarà
"massiccia" quanto Zavattini nel dopo Sessantotto poteva figurarsi,
ma che sicuramente è meno minoritaria di quanto una vulgata troppo
suggestionata dal preponderante credo edonistico-qualunquista vorrebbe farci
credere.